Travis Walton, l’ex boscaiolo dell’Arizona: “Aiutato, non rapito dagli Alieni” - Italiador
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Travis Walton, l’ex boscaiolo dell’Arizona: “Aiutato, non rapito dagli Alieni”

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Travis Walton è l’ex boscaiolo dell’Arizona che il 5 novembre del 1975 fu al centro di una vicenda tuttora tra le più controverse dell’ufologia e delle abduction. A Snowflake, in una sera già fredda, successe qualcosa di strano. Travis, che ora a 63 anni e gira il mondo a parlare di se stesso e della sua storia per non darla vinta chi gli dà del mitomane, l0 ha spiegato in un libro. E  il regista Robert Liebermann  l’ha raccontato per lui nel film “Fire in the sky” (“Bagliori nel buio” è il titolo italiano): una pellicola nella quale – sostiene – alcuni aspetti sono stati forzati. Ho incontrato Travis a Milano: ha partecipato a “Figli delle stelle”, l’evento di Sabrina Pieragostini, e si è fatto intervistare. Un incontro emozionante, anche per scoprire che degli Alieni che l’hanno preso 41 anni fa, oggi non ha affatto una cattiva idea: a suo giudizio non erano cattivi e l’hanno anzi salvato. 

Travis, come andò quella sera nella Sitgreaves National Forest?  

“Andò che, dalla mattina alla sera, la mia vita cambiò radicalmente. Avevamo lavorato duro, io e i miei colleghi boscaioli; avevamo rimesso tutto sul pick up e stavamo rientrando a casa, a Snowflake. Ma non impiegammo molto a incontrare l’Ufo (ndr: Walton parla di “craft”, che potremmo tradurre con nave, vascello). Io uscii dal veicolo perché volevo capire che cosa diavolo fosse quel “c0s0″. Volevo capire di più, ma forse sono andato troppo vicino… Rimasi ferito da un flusso di energia calato dall’astronave: ipotizzo che fosse un’arma difensiva. Oppure qualcosa che scaricava in automatico, pronta a scattare contro chi si avvicinava eccessivamente”.

I suoi compagni scapparono impauriti, ma poi tornarono.

“Pensavano che fossi morto: era stata una botta violenta e temevano fossi stato bruciato. Se ne andarono perché immaginavano che avrebbero fatto la stessa fine: quando tornarono, videro il velivolo librarsi e notarono che io non c’ero più. Andarono allora dallo sceriffo, dicendo che ero stato rapito da quell’oggetto e che probabilmente ero stato ucciso. Ma lo sceriffo cominciò a pensare che fossero stati loro a uccidermi e che avessero sepolto il corpo da qualche parte, inventandosi una storia come questa per depistare. Un bel pasticcio davvero. Peraltro, i  compagni superarono il test della verità con il “lie detector”.  Del resto, non aveva senso inventarsi tutta quella storia: sarebbe stato più facile e sensato sostenere che mi ero allontanato da loro per assecondare un bisogno fisiologico e che, nell’appartarmi, forse ero stato aggredito da una bestia feroce, ad esempio un orso”.

 “Ben cinque nel corso di più anni, condotti da tre esaminatori differenti. Non c’è possibilità che ci siano stati errori in questo esame: è la stessa tecnologia adottata ancora oggi da Fbi e Cia. Peraltro non c’erano solo le testimonianze dei colleghi. C’erano pure le evidenze fisiche: tutti gli alberi più vicini alla zona in cui stazionava il disco, erano caduti. E successivamente in quella stessa area si sono verificate stranezze nella ricrescita della vegetazione: si è rivelata particolarmente irregolare. Di recente sono ritornato in quel luogo e ho notato che le anomalie nelle piante ricorrono: perfino i pini sembrano avere una crescita accelerata e i tronchi paiono più densi”.

Com’è andata invece sul fronte dei test medici?

“La scarica è stata simile a quella che colpisce una persona fulminata da corrente elettrica ad alta tensione. Io sono stato sottoposto a uno stretto follow up medico, con tanto di controlli al cervello: per fortuna, è tutto normale. Hanno provato a verificare anche se ci fossero tracce di radioattività nel mio corpo, una valutazione estesa al terreno. Tutto negativo pure su questo fronte”.

Quale effetto fa non essere creduto?

“E’  molto, molto frustrante. Ti danno del pazzo, del visionario, del drogato. Non c’è nulla di peggio di chi non ti vuole credere. Si arroccano addirittura nelle sciocchezze o nelle ipotesi assurde, pur non di non accettare che non siamo soli nell’universo. C’è stato anche un tentativo di screditare la vicenda, utilizzando tutte le tecniche  di propaganda da manuale. Ma io ho affrontato ogni teoria e ho dimostrato che nessuna di queste interpretazioni aveva senso,  a cominciare dal sostenere che sia stata un’allucinazione di massa o persino un’allucinazione prodotta dalla droga. No, signori, sette persone non possono avere le medesime visioni”.

E, come capitato a Piero Zanfretta, immaginiamo che la sua vita si sia complicata.

“Ho avuto un ‘push back’, sono stato respinto a livello sociale: per un certo periodo non ho trovato lavoro e immagino che la colpa sia stata di quella storia. Le cose sono migliorate nel corso degli anni e adesso a Snowflake sono trattato bene: mi vengono a trovare, mi salutano, qualcuno vuole fare un selfie con me”.

Quanto è accurato il film “Fire in the sky”?

“In un film, si sa, una vicenda viene rivisitata e spesso modificata in modo profondo. Nel mio caso sono andati un po’ troppo in là nella descrizione della nave. Era l’opposto di quello che si è visto: nel film appare molto irregolare nelle forme, sporca, impregnata di materiale colloso, forse organico. In realtà era, come dire, molto meccanica, metallica, geometrica e pulita”.

Com’è riuscito a scappare? E’ vero che è stato aiutato da Alieni buoni? 
“Ero terrorizzato, facevo cose pazze pur di trovare il modo di scappare. Ma non ci riuscivo. Sì, mi hanno aiutato degli Alieni buoni. Ne ho visti di due tipi: quelli con fattezze che definirei simili a quelle dei Grigi e  quelli che paiono essere tanto simili ai popoli nordici. Mi sono reso conto che la nave decollava, magari mi hanno portato su qualche luna o su qualche asteroide. Il fatto che mi hanno depositato dove potessi essere aiutato, spiega il loro intento: non erano malevoli, come molti pensano. E parlo soprattutto dei ‘nordici’. Tutt’altro, mi volevano aiutare. A distanza di 41 anni modifico il concetto di abduction: ora mi pare qualcosa di più simile al soccorso di un’ambulanza. Mi hanno preso per rianimarmi. Il primo ospedale era a un’ora di distanza e nessuno del mio equipaggio aveva uno strumento per restituirmi lucidità e coscienza. Mi sono convinto che se i colleghi fossero stati nelle condizioni di farlo, non sarei stato prelevato e sarei rimasto lì”.

Qual’era allora lo scopo di visitare una foresta?

“Non lo so e non l’ho mai veramente capito. Ipotizzo: queste entità sembravano preferire le aree remote e lontane da zone abitate. Penso che anche fossero interessati a fare esperimenti agricole. Due miei colleghi hanno pure sostenuto che ci stavano aspettando e che io, in particolare, fossi il loro obiettivo.  Chissà, forse li abbiamo sorpresi o abbiamo fatto qualcosa di inaspettato”.

Fu lei a decidere di avvicinarsi all’Ufo, oppure fu come forzato a farlo?

“Sembra proprio che sia stata una mia decisione. I compagni hanno sempre sostenuto che fossi in trance e fuori controllo, ma io ho eccepito: no, ero uscito dal pick up di mia volontà. Loro non si sono arresi, sostenendo che gli Alieni forse mi hanno condizionato. Io continuo invece a pensare che è stata tutta farina del mio sacco”.

Una volta a bordo, lei fu visitato. E, appunto, rianimato.

“Sono stati gli esseri più piccoli a darsi da fare. Ad un certo punto si fermarono: forse avevano raggiunto il limite possibile dell’aiuto. Presumo che non conoscessero a fondo la fisiologia umana e che non avessero strumenti adeguati al nostro tipo di corpo. E poi io lottavo come un leone. Ero impaurito, mi dibattevo. Mi misero una maschera sulla faccia, chiaramente per addormentarmi. Al risveglio sentivo dei dolori tremendi. Così loro mi restituirono all’incoscienza. I vantaggi delle cure li ho avvertiti dopo il secondo risveglio”.

Proprio non ha cercato di instaurare un dialogo con Loro?

“Certo che ci ho provato. Ero in un panico… razionale: sapevo che stavo vivendo qualcosa di unico per un essere umano, mi sforzavo di essere calmo e di provare a fare domande intelligenti, magari anche solo pensarle nell’ipotesi che la telepatia potesse stabilire il contatto. E speravo pure di procurarmi un souvenir, una prova inconfutabile di quanto stavo sperimentando. Ma ero fuori controllo, urlavo senza sosta: penso che mi abbiano sedato pure per questo motivo”.

Si è accorto di altre presenze umane a bordo?

“C’erano due tipi di navi e due tipi di esseri, come ho detto: gli Alieni piccoli stavano nella nave più spigolosa e angolare, i ‘nordici’ in quella più grande. Poi sì, c’erano altri umani: pensai che fossero cavie o vittime. Invece oggi rivedo quell’impressione: per me erano lì a cooperare”.

Quando fu depositato sulla strada, si rese conto che erano trascorsi cinque giorni?

“Non certo in quei momenti: la prima cosa che avevo in mente era avvisare qualcuno di dove ero. Tra l’altro non fu semplice spiegare alla mia famiglia che ero davvero io. Fu mio fratello, ore dopo, a spiegarmi da quanto mancavo: mi invitò a guardare la barba, per rendermene conto. Secondo me gli Alieni hanno interrotto il tempo della mia coscienza”.

Ancora oggi c’è chi sostiene che lei ha inventato tutto per business. E il film farebbe parte di questo affare.

“Ridicolo. Nessuno fa soldi nell’ufologia: più facile, invece, rovinarsi”.

Secondo lei siamo vicini all’ammissione dell’esistenza della vita aliena?

“La domanda è quella cruciale del genere umano. Per cui non capisco la posizione troppo conservativa della Nasa. Chi lavora per questo ente scruta il cosmo, vede quante stelle e quanti pianeti ci sono: come fa a bloccare la verità? Mi chiedete se siamo vicini all’ammissione. Rispondo: mah, non saprei. Mi pare che i governi nascondano le cose con una decisione perfino superiore a quella dei militari. La mia missione è aiutare la gente ad accettare un dato di fatto: l’esistenza aliena è reale e non si potrà più nasconderla. Peraltro, la gente dovrà essere pronta ad accettarlo: ci vuole qualcuno che trovi il modo di dirlo. E tutti devono rendersi conto che non c’è nulla di sopranaturale e di spaventoso”.

Travis Walton credeva negli Alieni prima di quanto ha vissuto?

“Sì, perché mio fratello aveva vissuto un episodio di avvistamento”.

Autore: Flavio Vanetti  – 9 Ottovre 2016

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