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La rivelazione choc del pm: “Mi impedirono di indagare sui rapporti tra cosche e Pd”

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Pennisi: “Nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Emilia, la procura non volle toccare i politici”

«Certi comportamenti del collega Mescolini allora ritenni che fossero dovuti alla sua incapacità di comprendere. Col senno di poi mi sono dato spiegazioni diverse». C’erano elementi per indagare davvero sui veri alleati della ‘ndrangheta in Emilia? «Certo che c’erano, ma è stato scelto di non farlo. Forse per motivi di opportunità. Le cose possono essere lette in tanti modi. C’era la lettera scritta da un detenuto a un sindaco, è stata letta come una minaccia. E invece il discorso non è così semplice, quella lettera è un segnale, è l’indice di qualcosa che avrebbe potuto essere svelato, e non è stato svelato perché si è scelto di non indagare».

Roberto Pennisi, per anni pm alla Procura nazionale antimafia, oggi è in pensione. I due anni trascorsi a Bologna nel 2012-2013, a occuparsi dell’inchiesta Aemilia sulla mafia calabrese insediata tra Reggio e Modena, se li ricorda bene: compreso lo scontro frontale con il pm locale, Marco Mescolini. Quei ricordi Pennisi ha dovuto metterli per iscritto, nella relazione inviata alla Procura generale della Cassazione nel procedimento pre-disciplinare contro Mescolini. È una relazione rimasta nei cassetti del ministero, che il senatore Maurizio Gasparri chiede invano da tempo di poter avere in risposta a una sua interrogazione. Forse non è un caso che sia rimasta blindata. Perché è un atto di accusa esplicito su come è stata condotta l’indagine emiliana: colpendo due innocenti di centrodestra, e lasciando cadere tutte le tracce che portavano invece a sinistra, verso il partito egemone da sempre.

«Agli atti – racconta Pennisi – c’era questa informativa dei servizi segreti, che ci era stata trasmessa dai carabinieri. Di spunti ce n’erano tanti, con nomi e cognomi. Se si fosse deciso, come io chiedevo, di aprire uno stralcio d’inchiesta sui rapporti tra ‘ndrangheta e politica quelli sarebbero stati i primi nomi su cui avrei iniziato a indagare». L’informativa dei servizi è agli atti del processo. I nomi che vi compaiono sono quelli di Maria Sergio, capo del servizio pianificazione del comune di Reggio Emilia, e «moglie del capogruppo in consiglio comunale di Reggio Emilia Luca Vecchi, quest’ultimo personaggio in forte ascesa all’interno delle fila del Partito democratico di questa provincia». Vecchi oggi è diventato sindaco di Reggio, ed è a lui che viene inviata la lettera dal carcere di cui parla Pennisi, firmata da uno degli arrestati del blitz Aemilia, Pasquale Brescia, calabrese di Cutro come buona parte della colonia decimata dagli arresti. Brescia rimprovera Vecchi per non avere difeso a sufficienza i cutresi indagati: a differenza del suo predecessore Graziano Delrio.

Eppure «il sottoscritto e altri imputati facemmo campagna in suo favore, come facemmo per Delrio», scrive Brescia. Sono queste le tracce che si dovevano approfondire. Invece vennero indagati solo due di centrodestra, Giovanni Paolo Bernini e Giuseppe Pagliani, poi assolti. «Secondo me – dice Pennisi – nei confronti di Bernini non c’erano gli elementi per chiedere la custodia in carcere. Mai e poi mai. Lo scrissi. Ma la mia applicazione a Bologna non venne rinnovata, e la Procura chiese il suo arresto. Sulla richiesta la mia firma non c’è». Dunque, dottor Pennisi, ha ragione Bernini, che da anni va in giro a dire che mentre lui veniva accusato ingiustamente altri venivano salvati? «È un fatto storico. Quando dico che c’erano degli aspetti da approfondire mi riferisco proprio a questo. Alla fine dell’inchiesta Aemilia non c’è stato un solo politico condannato, eppure da quelle parti accadevano cose incredibili. Indago sulla ‘ndrangheta dal 1991 ma non avevo mai visto che i candidati alle elezioni locali in una città del nord attaccassero i loro manifesti anche in un paesino calabrese. Andava stralciata l’indagine, approfondita la posizione di altri indagati o indagabili per concorso esterno in associazione mafiosa, invece non si fece nulla».

Nella nota dei servizi segreti rimasta lettera morta si intuisce uno sfondo dove tutto si mischia, la funzionaria pubblica che rende edificabili i terreni degli amici dei clan è la stessa che lascia il posto dopo una strana storia di terreni ceduti alle coop rosse. Anche lì, ricordano i servizi, «erano coinvolti vari esponenti del Partito democratico reggiano». I rapporti occulti tra ‘ndrangheta e Pd nel cuore dell’Emilia rossa: questo è il vero nodo che la magistratura non ha voluto affrontare. Nel frattempo Mescolini è diventato procuratore di Reggio Emilia e ne è stato cacciato – caso unico in Italia – per il trattamento morbido che riservava al Pd. Si potrebbe fare adesso, quella famosa indagine? «Adesso è tardi – dice amaro Pennisi – bisognava lasciare le esche giuste, e farla allora».

Fonte: IlGiornale – Luca Fazzo, Domenico Ferrara – 7 Marzo 2023

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